La “storia”, da intransigente maestra, ci ha insegnato quanto pericoloso sia inseguire il desiderio di una società felice. Quell’istituzione sociale che per Thomas More e Tommaso Campanella rappresentava l’utopia, sembra inesorabilmente destinata a sfociare nel suo opposto: l’incubo di una vita senza libertà e piena d’orrore. L’incubo della “distopia”. Mentre la realtà ci pone di fronte a situazioni che assomigliano, più che mai, a distopie di orwelliana memoria, ci si chiede ormai da tanto, troppo tempo, se valga la pena sacrificare migliaia di vite in virtù del possesso di una striscia di terra di 360 chilometri quadrati, tra Israele ed Egitto, popolata da arabi, ma ufficiosamente posseduta e governata dallo stato dei discendenti di Davide. Proprio come in una distopia, tutto ha origine dalla guerra. Dopo il controllo dello stato britannico, nel 1947 le Nazioni Unite proposero che la zona entrasse a far pare del nuovo stato arabo. Così non fu, poiché la guerra arabo-israeliana isolò la striscia di Gaza dal resto della Palestina. L’Egitto, dopo l’armistizio del ’49, ne assunse il controllo, fino a quando Israele, prima nel ’56 (durante la crisi di Suez), e definitivamente nel ’67 (dopo la guerra dei sei giorni), ne prese il controllo amministrativo senza annetterla, ma esclusivamente con il potere militare. La distopia è già iniziata, perché religione e politica dettano le regole della spartizione del potere, ma il popolo muore per il conflitto armato che non si placa davanti e niente e nessuno. Dal 1994, grazie a Yasser Arafat, premio Nobel per la pace nel 1997, iniziarono gli accordi per la tregua dei conflitti che ricondussero, fino al 2007, il controllo della striscia nelle mani dei palestinesi. Il prezzo pagato dagli innocenti fu grande. Nel 2005, per vendetta nei confronti degli occupatori israeliani, furono bruciate sinagoghe, serre e coltivazioni. Tutti i coloni occupanti la striscia furono costretti, dal proprio governo, ad abbandonare le abitazioni. Risulta evidente come l’individualità dell’essere umano sia messa in secondo piano rispetto agli interessi, forzati, di un governo portato alla pace controvoglia e che pace continua a non avere. Arafat, l’uomo che di tale pace si fece garante, non raggiunse il suo scopo e nella memoria collettiva rimangono le ombre di un suo consenso agli atti di terrorismo a danno degli ebrei. E’ un eroe sconfitto. Dopo soli quattro anni, caratterizzati da raid aerei e bombardamenti indiscriminati sui civili, l’esercito israeliano tornò a marciare su Gaza. Oggi, nel 2012, si fa fatica a comprendere chi effettivamente controlli la striscia di Gaza. Incertezza scaturita da un potere politico che, nel concreto, dovrebbe appartenere alla Palestina, ma il realtà influenzato dal controllo territoriale, quasi assoluto (ad eccezione della zona sud, controllata dall’Egitto), dello stato d’Israele. Il popolo, in tutto questo, è vittima quasi silenziosa, attonita, terrorizzata dall’orrore dei missili che cadono quotidianamente tra la popolazione, senza vergogna, lanciati verso un qualsiasi autobus, palazzo, scuola. 360 chilometri quadrati di terra valgono tutto questo? Qualsiasi motivazione si voglia dare allo scempio protratto ai danni di uomini e donne, palestinesi o israeliani, nessuna rientra nei canoni della logica. Forse anche stavolta la letteratura ha superato la realtà e la guerra è un metodo per tenere sotto controllo le masse, soggiogate dal terrore. Intere generazioni abituate a vivere una normalità che per chiunque altro rappresenterebbe l’inferno in terra. Forse Orwell, Bradbury, Huxley, autori di romanzi perfettamente assomiglianti alla situazione qui raccontata, non avrebbero dubbi sull’esito: un’ultima guerra definitiva, che sancisca il potere. Purtroppo, o fortunatamente, non è così semplice. Qualsiasi intervento esterno, occidentale o orientale, rischierebbe di causare l’esplosione di un conflitto ben più ampio di quello finalizzato al controllo di un’esile striscia di terra e che costringe migliaia di persone, da troppi anni, a non poter pensare al proprio benessere, ma esclusivamente alla propria sopravvivenza.